Giornata internazionale del bimbo pretermine: il vuoto dentro

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Il 17 novembre e’ stata la giornata internazionale dedicata ai bimbi nati pretermine e non posso non dedicare un articolo alle loro mamme.

La gioia di scoprire che sei incinta, nove mesi di attesa e preparativi, il parto e poi..

E poi accade di provare il vuoto dentro. Solo alcune di noi, fortunatamente, vivono questa esperienza, ma è giusto raccontarla, perché anche questo è essere mamma.

Quando oltrepassi le porte della terapia intensiva neonatale, è come se piombassi in uno spazio senza tempo, dove i giorni sembrano anni. Anche se sei in uno dei reparti migliori di Italia e anche all’avanguardia d’Europa, come in Mangiagalli, ti sembra tutto precario.

Per accedere al reparto devi togliere anelli, orologi e bracciali; devi indossare un camice verde e igienizzare le mani. Compi tutte queste azioni con ansia, ma non salti neppure un passaggio di quelli prestabiliti, perché solo con queste procedure puoi avvicinarti al tuo piccolo. Non puoi crederci che l’atto più naturale del mondo, che una mamma abbracci il suo bambino, diventi così complicato, ma va così: tutto lì sembra assurdo. Tuttavia è l’unico luogo dove trovi pace, vicino all’incubatrice del tuo piccolo e così nell’assurdo trovi un senso.

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Alcune mamme trascorrono lì mesi, sospese nel limbo, avanti e indietro ogni giorno da casa, una casa dove non riescono a stare perché la stanza che è pronta per il loro bimbo è vuota; altre sono più fortunate e vivono questa esperienza solo qualche giorno; tutte, però, hanno occhi spaventati.

Non c’è modo per rincuorare queste madri forti e tenaci. Non vogliono sentire consolazioni, quelle sono inutili. Ascoltano i dottori, poi ricorrono allo smartphone per connettersi alla rete e comprendere di più cosa stia succedendo. Vogliono informazioni e benché siano consapevoli che le notizie mediche trovate nel web non siano sempre veritiere, loro navigano sperando di sapere dell’altro e poter far qualcosa. Odiano sentirsi impotenti. Per combattere questa sensazione, che le pervade, tirano il latte, perché tutti continuano a ribadire loro quanto sia importante il latte materno.

Intanto i giorni passano e il mondo esterno diventa solo una pallida ombra: solo quando porteranno a casa il loro bambino, allora sì che torneranno a vedere il mondo a colori, a sentire i profumi della vita e non solo l’odore tipico degli ospedali.

Di storie mentre sei lì ne vedi e senti tante: ci si fa forza salendo ad esempio che sempre più bimbi nati pretermine sopravvivono.

Tutte vestite uguali, con i loro grembiuli verdi, le mamme si confidano l’una con l’altra, come compagne di scuola: solo tra di loro si capiscono, perché vivono della stessa paura.

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C’è la mamma che ha la figlia nata di trentotto settimane per parto cesareo. La bimba è lì perché ha un distress respiratorio. Nonostante il taglio, la mamma è continuamente in piedi, fissa il monitor per controllare il livello di saturazione. Non lo ammette ma si sente in colpa per ciò che è accaduto. Non ha ancora mai preso in braccio sua figlia, solo dopo quattro giorni dalla nascita può vivere questo abbraccio e per un attimo si dimentica di tutto. Il marito è sempre lì. Un giorno racconta alle altre di come sua suocera la stia aiutando: è l’unica positiva, che non le permette di crollare, e la costringe a mangiare, la dovrebbe ringraziare, aggiunge, ma non sa come. Questa mamma è fortunata, dopo una settimana va a casa con la sua bimba, ora sana come un pesce. Nessuna conseguenza per il futuro. Appena esce per strada, mentre il marito per la prima volta è alle prese con il kit auto, la donna si accorge che ora sono solo lei, suo marito e la sua piccola nel mondo, nessun dottore a proteggerli o monitor a dirle quanto ossigeno c’è. La sensazione di libertà è travolgente e la voglia di iniziare questa nuova vita a tre le dà i brividi.

C’è la mamma che per una gestosi ha partorito il figlio al settimo mese di gravidanza. Trascorre nel reparto quasi due mesi. Lei è una roccia, una piccola grande donna incrollabile. Un’espressione gentile per tutti sul suo pallido viso. Sempre precisa e metodica, fa forza alle altre mamme e a suo marito, che è come sospeso, immobile. Quando le dicono che può portare a casa il suo bambino, crolla in un pianto liberatorio e finalmente le sue guance tornano a colorarsi. Fuori guarda il cielo e non le è mai sembrato così bello. Se la vedeste oggi, la vedreste alle prese con un bimbo di tre anni alto quasi un metro, a cui già piacciono le moto e le femminucce: precoce alla nascita, pronto alla vita.

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Poi c’è la mamma di due gemelli nati prematuri, che ha una grinta straordinaria, nonostante il pianto che non riesce a placare. Corre da un reparto all’altro, perché i suoi bimbi infatti non sono insieme, e, quando, poi, finalmente dopo una decina di giorni li porta a casa entrambi, ride irrefrenabile come se la gioia le inondasse il cuore.

Per queste mamme c’è un lieto fine, c’è la vita ad attenderle fuori.

Tuttavia anche se il tempo è passato non hanno dimenticato quei giorni e non tutte hanno esorcizzato il buco nero che la paura aveva scavato nella loro anima. Se uno chiedesse loro qualcosa, non hanno voglia di parlare del dolore e del vuoto che scava dentro, non lo faranno mai, perché desiderano solo parlare del bello che c’è stato dopo e continua ad esserci. Dentro, sappiatelo, la cicatrice c’è: non a caso una di queste mamme ha un tuffo al cuore, ogni volta che sua figlia chiama”mamma!” con tutto il fiato.

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