Si è appena concluso il primo step di un’iniziativa partecipata promossa da ADI Lombardia, volta a sensibilizzare sul tema del degrado in città. Nell’ambito della programmazione di XX1 Triennale, la mostra Il design che non c’è ha sollecitato l’attenzione dei cittadini sulle situazioni sgradevoli, che in assenza di una buona progettualità, rendono peggiore la vita quotidiana. A ottobre scopriremo i problemi più sentiti.
Pannelli sospesi hanno affollato il piano terra del Palazzo della Triennale di Milano in un racconto attraverso gli occhi di chi vive e si muove in città. È bastata la fotocamera di un qualsiasi smartphone per immortalare i soliti brutti incontri che ahimè, troppo spesso entrano a far parte di linguaggi e rituali metropolitani. Centinaia le immagini inviate e selezionate da ADI Lombardia per l’esposizione. Centinaia i voti espressi dai visitatori che indicheranno i problemi prioritari, ai quali dare una risposta concreta attraverso il design.
Alessandro, Andrea, Angelo, Claudia, Elisabetta, Fabrizio, Francesca, Giada, Giuseppe, Massimo, Paola, Rawikarn, Sara, Susanna e Tommaso. Non importa se adolescenti o adulti, pensionati o professionisti. I loro scatti raccontano di un disagio che accompagna passo dopo passo in ogni azione del vivere urbano. Sensazioni di sconforto e smarrimento di chi attraversa strade, di chi aspetta l’autobus, di chi semplicemente cerca un cestino per rifiuti, una panchina o un posto per riposarsi all’ombra. Apparizioni troppo frequenti di bruttezza e scomodità che la delegazione lombarda di ADI, l’Associazione per il Design Industriale, in collaborazione con l’architetto Macchi Cassia, ha voluto raccogliere per rispondere alla richiesta di XX1 Triennale.
Sotto a chi tocca, lo scenario è quello di una qualsiasi grande città, ma in quella riconosciuta come sua indiscussa capitale, è il design a muoversi scendendo in strada. Ascoltare persone, esplorare luoghi con l’obiettivo di progettare per il benessere comune. Che abbia inizio un nuovo modo di vedere la città. Con gli occhi di chi la abita e la voce di intere comunità. Quello di ADI Lombardia è un progetto dal carattere antropologico ma non ancestrale, ambizioso ma concreto e immediato. Se i grandi maestri come Le Corbusier pensavano al progetto come panacea di tutti i mali e i razionalisti come risoluzione dei problemi quotidiani, questo invece punta i piedi per terra per innalzare standard verso la qualità.
I cittadini segnalano ai cittadini che votano le segnalazioni dei cittadini. Consentitemi il gioco di parole per sottolineare l’aspetto fortemente partecipativo di questa idea di ADI Lombardia. Al telefono con il presidente Ambrogio Rossari mi accorgo di quanto una committenza possa trasformarsi in desiderio vivo. Il design non è da considerarsi unicamente declinato all’oggetto o al complemento d’arredo. Abbiamo pensato alla vocazione originale, quella capacità di sintesi tra estetica e funzionalità, proiettandola sulla qualità della vita in un grande centro urbano. La strada della partecipazione è sembrata sin da subito la più adatta. Per questo non è stato richiesto ai cittadini di cimentarsi in opere fotografiche, piuttosto, in scatti veloci, improvvisati. Non importa se a fuoco o ben inquadrati. Niente di più autentico di immagini catturate da cellulari.
Cosa succederà? Procediamo con ordine. A ottobre nell’ambito di un nuovo capitolo de Il design che non c’è, ADI Lombardia rivelerà la situazione di degrado che avrà ricevuto più voti da parte di chi ha visitato la prima parte della mostra, conclusa lo scorso 5 luglio. Percorsi ad ostacoli, marciapiedi stretti, quasi lembi d’asfalto assolati. Vespasiani moderni ridotti a vetuste latrine, improvvisate e disordinate bacheche per annunci sui pali della luce. I temi più urgenti saranno oggetto di un concorso rivolto a studenti e professionisti. Tutti invitati a suggerire soluzioni con un progetto di design. Durante una seconda mostra, verranno presentati ufficialmente alla città e ai suoi amministratori. Eh si! Dovranno essere loro, con determinazione e investimenti, a non rendere vano questo modello partecipativo, applicabile peraltro a tante realtà del nostro paese.
Io ci credo, io credo nell’efficacia di una buona progettualità. Io credo nell’architettura come incessante percorso evolutivo di ricerca sociale. Quella che si contrappone alla cementificazione e al consumo del suolo. Io credo nel design che risponde alle necessità day by day, da quelle più profonde a quelle più spicce. Di fronte a incuria, ignoranza, assenza di modelli e saldi punti di riferimento però, anche la più nobile delle imprese può perdere di efficacia. Disarmanti i beceri tentativi di supremazia perpetrati attraverso squallidi tag, ben lontani da poter essere considerati street art e la superficialità di certi atteggiamenti che trasformano strade in discariche e depositi a cielo aperto. L’ultima delle immagini di questo post, non è stata inviata a ADI Lombardia, perché fresca di giornata, immortalata sulla facciata del condominio dove abito.
E in attesa che qualcuno spieghi la contraccezione a quella povera mamma sempre incinta, Funk Design vi aspetta la settimana prossima. Stay tuned!
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