Quando fuori è tutto strano, e nella stranezza ti viene l’impulso di scrivere, di nuovo.
Probabilmente ci voleva una pandemia per farmi rimettere di fronte alla tastiera. Sento le dita anchilosate, le stesse dita che per anni hanno picchiato incessanti su questa stessa tastiera, facendo sembrare la scrittura il gesto più naturale del mondo. Eppure una tastiera la uso ancora ogni giorno, certo, per scriverci cose diverse, ma ogni giorno.
Sono a casa come non mi capita da innumerevoli X sera recenti, intorno ho dell’incenso portato dal viaggio in Oman, una trapunta azzurro oceano, la tv di sottofondo… in realtà un grande silenzio, ecco cosa ho intorno. Un silenzio surreale.
Quando fuori è tutto strano perché nel giro di 1 mese ti senti sbalzata in una dimensione diversa, come quando ti girano un video di nascosto, ti riguardi, e ti vedi diversa, fuori tempo, fuori asse, più grassa. Ti chiedi se i tuoi capelli siano realmente di quel colore, se la tua voce abbia realmente quel suono odioso, se i tuoi movimenti risultino così goffi. È così che mi sento da 17 giorni, mi sembra di guardarmi su uno schermo, seduta in poltrona, come nel Truman Show.
In realtà mi sembra di osservare tutto da una simil realtà come quella del Truman Show.
Io domenica 23 febbraio mi sono svegliata accanto a una persona speciale, abbiamo fatto colazione con gli occhi ancora pieni di sonno e in gola le risate della sera prima, ad una festa con amici. Poi l’ho salutato e sono andata ad abbracciare mia nipote, a festeggiare i suoi 11 anni. Leggevo qualche notizia nel frattempo, ma ancora ci si scherzava sopra, con quel velo di disagio già nella mia testa e una vocina che mi ripeteva: “ma stanno facendo sul serio?”. Nel giro di due ore è cambiato tutto, le telefonate hanno iniziato a susseguirsi rapidamente. Chiudiamo la scuola, rispondiamo alle direttive della Regione. Cancello il treno prenotato per le 18.45 per tornare a Brescia e corro in stazione, – “muoviti e prendi il primo che parte, poi tornare potrebbe richiedere ore”. In stazione ho il primo impatto con quella che poi nei giorni a seguire sarebbe diventata una sensazione costante di straniamento. Noto le prime persone con le mascherine, la gente che si guarda intorno con sguardo preoccupato, faccio caso per la prima volta a quanto possa risultare assurdo un luogo affollato che all’improvviso appare silenzioso. Anche la carrozza del Frecciarossa che riesco a prendere è silenziosa, e anche vuota. Sale una famiglia cinese, ma nessuno ormai sembra più avercela con loro. Il “nemico” ora, potrebbe essere il tuo vicino di casa.
Arrivo a Brescia e respiro appena scesa dal treno, – “Ehi, qui è tutto normale” – penso. C’è gente per strada, gli ultimi segnali di una domenica pomeriggio di un fine febbraio insolitamente caldo, i negozi aperti, il grande bar all’angolo con la strada di casa mia, quello con tanti tavolini fuori, è pieno di gente che beve il Pirlo e sgranocchia patatine. Entro a casa e come al solito mi rendo conto di aver sbagliato qualcosa nell’impostare il riscaldamento perché fa tremendamente freddo e mi rimprovero mentalmente per tutto il tempo che passerà prima di riuscire ad avere una temperatura sufficientemente accettabile per anche solo pensare di infilarsi una tuta e appoggiare il cappotto. Il frigo è vuoto, e anche questo rientra nei miei standard di mancanza di tempo-pigrizia-dieta-weekend con la valigia in mano.
Apro la doccia per far riscaldare almeno l’acqua e prendo in mano il telefono. – I locali devono chiudere alle 18 – Raga ma avete letto – Forse non possiamo uscire a cena stasera – Una serie di messaggi sconclusionati iniziano a rincorrersi sullo schermo dell’iPhone. Ma io ho voglia di una doccia calda. E devo ancora assorbire il weekend, devo ricordarmi quanto è stato bello il risveglio di stamattina, devo pensare all’abbraccio di mia nipote che non vedevo da un sacco di giorni. Devo raccogliere le energie per domani, perché sarà una settimana difficile.
Il lunedì mattina uscire di casa e trovare la strada deserta mi proietta in testa le scene di almeno una decina di film diversi, ma anche scenari descritti nei libri apocalittici che qualche anno fa, non so perché, mi era presa la fissa di leggere. Quel lunedì mattina me lo ricorderò per sempre, esattamente come mi ricorderò per sempre oggi, lunedì 6 aprile, ovvero 43 giorni e una manciata di ore dopo.
Anche il 10 marzo me lo ricorderò a lungo perché è stata la giornata spartiacque, quella in cui mi sono dovuta chiudere un attimo nel bagno della scuola, respirare, calmarmi e poi tornare dagli altri, ad un rigoroso metro di distanza, a dire che andrà tutto bene, che siamo cazzuti, che dalla crisi nascono le idee migliori, che stiamo tenendo botta nel migliore dei modi possibili. Eppure non è facile, non è facile per niente. Non è facile essere manager ragazzi, non è facile essere leader, puoi esserlo per natura e per istinto, ma ci sono giorni, tipo il 10 marzo, in cui può essere la cosa più difficile del mondo.
Continuo a pensare che tutto quello che sta succedendo sia veramente surreale, o meglio, che sia surreale averlo lasciato accadere. Che sia surreale nel 2020 vivere in un Paese in cui la stampa e l’informazione giocano un ruolo di infiltrati, talpe, disseminatori di odio, panico, fake news. Ho accettato, anche se all’inizio ho fatto fatica, come tutti quelli che in passato hanno avuto dei trascorsi difficili con il potersi costruire una libertà personale, l’idea di dover ridurre al minimo, se non a 0, i miei contatti sociali extra lavorativi. Ho accettato di lavorare a porte chiuse. Ho accettato di non vedere più una media di 200 studenti passare davanti alla porticina del mio ufficio ogni giorno. Ho accettato di sentir parlare esperti virologi di sto grandissimo cazzo tutto il giorno (si, l’ho scritto così, i francesismi erano inutili in questo caso). Ho accettato di non andare in palestra (e per assurdo è una delle cose mi ha distrutto psicologicamente di più visto il lavoro pazzesco che stavo facendo su me stessa) e di provare ad allenarmi da casa con risultati per lo più frustranti. Ho accettato di non andare a Teatro e di vedere i miei compagni in videoconferenza per leggere il nostro copione insieme. Ho accettato di non abbracciare gli amici, io, che sono “fisica” di natura. Ho accettato di tenermi ad un metro di distanza da chiunque, di avere le mani screpolate per quante volte le lavo. Ho accettato di tirare fuori dall’armadio le scorte di Amuchina fatte per i viaggi (e poi usata pochissimo). Ho accettato di non stringere la mano alle persone. Ho accettato i locali chiusi, gli sguardi sfuggenti delle persone che quasi si sentono in colpa se le incroci per strada.
Ho accettato anche di vedere un sacco di persone non seguire le regole cercando di trarne vantaggio.
Ho accettato, e questo l’ho dovuto fare proprio negli ultimi giorni, l’idea di non rivedere la mia famiglia e il mio ragazzo almeno fino al 14 aprile, e probabilmente moltissimo di più. E sono già tantissimi giorni. Solo a pensarci mi si blocca il respiro e mi sento mancare l’aria.
Ho accettato di non andare in montagna a sciare il primo weekend di marzo, ma di rimanere a casa con un low profile. Ho accettato di cancellare un weekend con amici a Bologna previsto per il mio trentaquattresimo compleanno. Ho accettato l’idea di aver trascorso questo compleanno da sola, in casa, in una città che non è la mia e che devo sforzarmi tanto, in questo momento, per non vivere come una prigione in cui non avrei voluto essere. Perché la mente, purtroppo, nelle situazioni di difficoltà diventa molto difficile da controllare ed è un attimo che ti ritrovi a mettere in discussione l’intera tua vita, o almeno una buona parte. Sicuramente è vero che nella difficoltà riesci a mettere a fuoco quelle che sono davvero le cose e le persone importanti della tua vita, e questo lo sto facendo, e mi sarà utile, utilissimo, quando tutto questo sarà finito.
Non ho paura per me stessa, ho paura per gli altri. Ho paura di poter essere una untrice involontaria, ho paura di continuare a sentire bollettini disastrosi, ho paura per il mio staff, gli amici, la mia famiglia. Ma la paura a cosa serve? La paura è un blocco inutile e cerco di contrastarla pensando all’entusiasmo con cui farò tutto quello che ora mi è negato, e penso anche che mi è negato per il bene di tutti. E che ora come ora incazzarsi perché siamo dovuti arrivare al punto di negare la libertà ad un Paese intero non ha senso, bisogna solo restare a casa e tacere per quanto possibile.
Riempirsi le orecchie di musica, gli occhi di film, video, parole stampate sui libri. Bisogna usare i mezzi tecnologici che tanto decantiamo, da Skype in giù o in su di certo i modi di comunicare non ci mancano. Questa esperienza ci insegnerà tantissime cose, che ora non vediamo, e i cui risultati vedremo più avanti. E guardatevi bene da chi non avrà imparato nulla da tutto questo, perché forse è un persona vuota, che non merita di far parte della vostra vita. E lo penso davvero.
Al posto di perdervi nelle to do list delle cose che non avete mai avuto il tempo di fare seguite semplicemente quella cosa chiamata istinto. E allora se quando non siete in smartworking vi viene voglia di passare l’aspirapolvere cantantando “I want to break free..”o ballare per caso le canzoni trash della scorsa estate a cavalcioni di una scopa che nel frattempo avrete provato mille volte a controllare se dopo quel fatidico cazzo di giorno rimane comunque in piedi da sola o meno, fatelo. Se vi verrà voglia di mettervi sotto il piumone a piangere fatelo. Se per esorcizzare vi prende la sindrome di Marie Kondo e volete ribaltare casa e mettere le mutande in ordine di colore, fatelo. Se vi viene voglia di fare una crostata, anche se non sapete nemmeno che ingredienti servono per la pasta frolla, fatela.
Insomma, fato ciò di cui avete voglia, ma fatelo nelle mura di casa. Per preservare voi stessi, ma soprattutto, per preservare gli altri.
In questi giorni sento spesso l’argomento “ma come, fino a ieri vi lamentavate di non avere mai tempo per una serie Netflix sul divano e adesso che potete…” – Adesso che potete non l’avevamo deciso -, messo in piano, preventivato. Ecco dove sta la differenza. Siamo abituati a programmare le nostre vite, a dividerle negli scompartimenti del lavoro, del tempo libero, degli affetti, della famiglia. Spesso facciamo anche i salti mortali per far convivere tutto e ci sentiamo orgogliosi di questo.
Non siamo abituati a gestire i vuoti, non siamo abituati ad essere soli. Fisicamente, ma anche semplicemente con i nostri pensieri. La solitudine non è un’abitudine semplice. E io forse sono più fortunata di altri perché con la mia solitudine ci sono scesa a patti già 5 anni fa, quando sono andata a vivere da sola. Quel che è certo è che, generalmente, la solitudine non è mai tale a 360°, di solito è mitigata dalla normalità di una cena con amici, di un aperitivo, di una gita fuori porta. Di una relazione nascente. Adesso invece è una solitudine obbligata e obbligatoria, e questo inevitabilmente, in molti, genera rabbia e non accettazione.
Due problemi per cui non c’è una cura immediata, se non un attento lavoro di riflessione, di sforzo di pensiero, di visione del complessivo e non del singolo. Se accecati dalla rabbia per essere chiusi in casa tutti ci mettessimo a non rispettare le regole, il risultato sarebbe un altro mese di lockdown, e poi magari un altro ancora.
Lo sforzo è quasi paradossale, siamo chiamati alla solitudine per un bene totalmente collettivo.
Ma io lo so, anche se la mia stima negli italiani è oscillante, che possiamo farcela. Nonostante i media, nonostante le fake news, nonostante un governo inadeguato di fantocci in cravatte e mascherine.
Proviamo a pensare che andrà tutto bene perché sarà solo merito nostro. Dei singoli, che diventano una cosa sola. E forse questo ci farà pesare di meno la solitudine.
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